Luigi Zoja, La morte del prossimo
Einaudi, 2009, p. 139.
Recensione di Antonio Castagna
Recensione di Antonio Castagna
Fino a trecento anni fa, circa, la società era retta da due pilastri, Dio e il prossimo. “Ama il prossimo tuo come te stesso” è l'indicazione cristiana. I due pilastri insieme costituiscono un ordine, definiscono una gerarchia. La “morte di dio”, come scrisse Nietzsche a fine '800 trascina con sé anche la crisi dell'idea di prossimo. Questa la tesi del breve e intenso testo di Luigi Zoja, psicanalista e autore apprezzato. Zoja analizza questa crisi e caduta dell'idea di prossimo, fino alla scomparsa di questi decenni, in cui è il narcisismo a prevalere, mentre l'altro, cessa di essere prossimo e diventa semplicemente il vicino, vicino magari fisicamente, ma abissalmente lontano dal punto di vista emotivo e affettivo. “Col volgere del secolo XX in secolo XXI cede in modo irrimediabile anche il secondo pilastro del comandamento: l'uomo metropolitano si sente sempre più circondato da estranei” (p. 6).
La distanza dall'altro si esprime in mille piccole azioni quotidiane a cui non prestiamo nemmeno attenzione. È sempre più raro ad esempio, condividere il cibo in uno scompartimento ferroviario. Eppure era così frequente fino a pochi decenni fa trovare una famiglia, meridionale perlopiù, che apriva i cartocci di pane, formaggio, pomodori e olive, offrendoli prima di tutto ai presenti.
La televisione ci porta a una illusione di prossimità, ci sembra di conoscere i personaggi che vediamo sul piccolo schermo, ci affezioniamo, li riconosciamo. Ma l'unica relazione possibile è di tipo unidirezionale, li ammiriamo, ma non instauriamo alcuno scambio con loro. Persino il sesso, è sempre più praticato attraverso la pornografia, possibilmente on line, possiamo guardare, ma non sentiamo l'altro, non c'è il corpo. I neuroni specchio ci permettono di sentire qualcosa che assomiglia al desiderio fisico, il che ci consente un attimo di godimento senza rischi e attriti, naturali quando hai di fronte a te un altro. Anche il culto del corpo, praticato nelle palestre, è finalizzato a specchiarsi, non ha alcun rapporto con la costruzione del mondo, come poteva essere ad esempio il culto che ne avevano i fascisti per i quali il corpo era parte di un progetto di potenza non solo individualistico.
L'alienazione, che colpiva essenzialmente l'operaio, separato dall'oggetto che produceva e dal mondo che quell'oggetto stesso contribuiva a creare, colpisce oggi anche i capitalisti, alienati anche loro dal processo produttivo. Le aziende si sono finanziarizzate, sono controllate da catene di comando lunghissime e composte spesso da scatole vuote, come la storia di Telecom Italia dimostra. Dentro le scatole non c'è nessuno prodotto, non ci sono persone. Una differenza sostanziale rispetto all'imprenditore che controllava direttamente il processo produttivo di beni e servizi.
Per l'imprenditore, il manager, l'altro non c'è più, i suoi comportamenti dunque diventano antisociali. Un questionario che misura i disturbi psicopatici, somministrato da un'equipe dell'Università del Surrey, a 39 manager di successo e a criminali e psicopatici pericolosi, ha mostrato come i manager siano sostanzialmente degli psicopatici di successo. Condividono tutte le caratteristiche patologiche con i criminali e gli psicopatici, tranne la violenza fisica, l'aggressività. Il che volendo li rende anche più pericolosi, in quanto psicopatici nascosti. Scrive Zoja, almeno il criminale cerca il prossimo, sia pure aggredendolo, lo psicopatico di successo è del tutto indifferente all'altro.
Il tentativo di eliminare l'attrito rappresentato dalla presenza dell'altro non è nuovo. Per fare la guerra, ad esempio, bisognava creare una distanza dal prossimo, ridurlo a un numero, come gli ebrei nei campi di concentramento. Un misto di ideologia e di tecniche contribuivano a disumanizzare l'altro, che diventava sacrificabile. Adesso questo sforzo non è più necessario, l'avversario non lo vedi nemmeno, se ne occupano gli aerei, magari senza pilota, i nemici diventano sagome luminose, lontane, più simili a personaggi di un videogame che a esseri umani in carne e ossa.
Viviamo in un mondo di privazione sensoriale, dove gli stessi strumenti che dovrebbero metterci in contatto con l'altro finiscono per aumentare la distanza, come le mail e i social network.
Lo scenario che Zoja ci presenta è di una deriva, una perdita, che noi cominciamo appena a registrare ma che proviene da una lunga storia. La secolarizzazione della società, l'affermazione del diritto alla felicità, presente ad esempio nella Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti d'America, hanno sdoganato il desiderio individuale che in un sistema capitalistico si esprime attraverso il possesso del denaro e dei beni, mettendo in competizione gli individui. “Ma gli uomini che competono hanno più difficoltà a essere prossimi”. I migranti in questo contesto diventano i principali nemici, che attentano alle nostre risorse. Ma senza l'esperienza del prossimo le considerazioni di buonsenso, circa la ricchezza prodotta dai migranti e lasciata sul territorio che li ospita, hanno poco o nessun peso.
È come se i concetti di fraternità, uguaglianza e libertà, che avevano guidato la rivoluzione francese, si fossero scissi invece di integrarsi. Sembra di sentire echeggiare la tesi di George Lakoff (non citato da Zoja) che in Libertà di chi? (Codice edizioni) mostra come si sia affermata un'idea di libertà intesa come libertà dai vincoli, dagli altri, dalle regole, contrapposta a un'idea di libertà come possibilità. Allargare le possibilità implica la presenza degli altri. Per gli individui non c'è possibilità di scelta se non cresce il livello culturale e la scolarità ad esempio. È un'idea di libertà che richiama alla responsabilità collettiva.
“L'incapacità di conciliare legame sociale e desiderio equivale sempre alla vittoria di quest'ultimo. La costruzione di un gruppo di uguali richiede una volontà continua, fatta di veglie, di noiosi aggiustamenti e rinunce: altrimenti come i miracoli si appiattisce in immaginette dopo l'apparizione iniziale. Il desiderio, invece, sopravvive da solo, anche nel più pigro, anche mentre dorme. La solidarietà conosce il sonno, il desiderio non dorme mai. Dioniso è un dio insonne” (p. 99).
Il '68 e i movimenti che seguirono non riuscirono, secondo Zoja, a cogliere la perdita di legame sociale che accompagnava il trionfo dell'individualismo. I manifestanti esprimevano nei confronti della polizia e dei benpensanti una alterità assoluta, traducendola in comportamenti sessualmente disinibiti ed estraneità all'altro, le rivendicazioni di diritti si separarono dai doveri e dalle regole. L'esito è stata la perdita dei legami che tengono insieme una società, dove diritti, doveri e valori permettono di riconoscere l'altro oltre le differenze.
In chiusura del libro Zoja si interroga sul valore di un gesto rivoluzionario come quello del buon samaritano che dona il suo mantello a uno straniero sconosciuto. Il salto morale di cui avremmo bisogno è paragonabile. È dubbio infatti che si possa amare ciò che è lontano, che basti conoscere per essere giusti.
L'altro è necessario, ed è soprattutto necessario che faccia attrito, che non sia un'immaginetta lontana a cui possiamo prestare un'attenzione svogliata guardando un telegiornale. La parabola del buon samaritano ci riporta a un'idea dell'altro come presenza e alla relazione come scambio. Il mantello è il veicolo per creare un legame di reciprocità. Zoja chiude il libro con un'indicazione per il futuro molto importante e tutta da sviluppare.
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